Abuso di dipendenza economica e franchising: dall’AGCM un nuovo impulso
Il 25 novembre 2020, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM“) ha avviato un’istruttoria nei confronti del gruppo Benetton per un sospetto abuso di dipendenza economica in merito a due contratti di franchising aventi ad oggetto la vendita dei prodotti a marchio Benetton.
L’AGCM si è attivata su segnalazione di un ex franchisee Benetton, il quale ha denunciato la presenza nei contratti di franchising che aveva stipulato di una serie di clausole che avrebbero determinato una dipendenza economica strutturale dell’affiliato nei confronti dell’affiliante e ne avrebbero ostacolato lo svolgimento in utile dell’attività aziendale, fino a causarne la cessazione.
In sintesi, i contratti di franchising in questione prevedevano le seguenti clausole:
- un notevole impegno economico per la progettazione e la realizzazione del punto vendita, interamente a carico dell’affiliato, il quale era obbligato ad accettare i costi stimati dal franchisor e ad affidarsi ai professionisti dallo stesso incaricati, anche per lo sviluppo del progetto architettonico e per l’acquisto dell’arredamento del negozio, pena la risoluzione espressa del contratto;
- la sottoscrizione di una garanzia bancaria in caso di eventuale inadempimento contrattuale da parte dell’affiliato, emessa da un istituto bancario di gradimento del franchisor;
- il divieto per l’affiliato di cedere il contratto, di mutare la compagine sociale senza la preventiva approvazione del franchisor, di cedere a terzi il punto vendita senza offrire una prelazione all’affiliante, pena la risoluzione del contratto;
- il mancato riconoscimento all’affiliato di un indennizzo in caso di cessazione del rapporto contrattuale, nonché alcune restrizioni relative alla gestione dell’invenduto e degli arredi del punto vendita;
- l’obbligo dell’affiliato di comunicare al franchisor il budget stagionale e concordare con quest’ultimo la proposta di acquisto per la stagione;
- l’obbligo dell’affiliato di mantenere un magazzino sufficientemente ampio, con un meccanismo di riassortimento automatico per alcuni prodotti;
- il diritto del franchisor di stabilire la tempistica degli ordini delle merci e l’irrevocabilità delle proposte d’acquisto dell’affiliato;
- l’obbligo dell’affiliato di rilasciare al franchisor un mandato di addebito diretto SEPA per i pagamenti dovuti ai sensi del contratto;
- l’obbligo dell’affiliato di partecipare alle campagne pubblicitarie del franchisor e di non promuovere campagne pubblicitarie senza il consenso di quest’ultimo;
- il carattere non vincolante dei termini di consegna previsti per il franchisor, a fronte dell’obbligo per l’affiliato di non ricevere la consegna delle merci;
- la previsione di limitazioni di garanzia sulle merci e, al contempo, di modalità rigorose di restituzione dei capi viziati o in eccesso;
- il fatto che numerose clausole contrattuali erano sottoposte alla doppia sottoscrizione da parte dell’affiliato in quanto vessatorie, ai sensi degli 1341 e 1342 c.c.
Secondo l’analisi preliminare dell’AGCM, gli impegni e gli oneri posti a carico dell’affiliato in base ai contratti di franchising erano tali da configurare uno squilibrio eccessivo nei rapporti tra il franchisor e il franchisee, rendendo a quest’ultimo difficoltoso, se non impossibile, ricercare sul mercato alternative commerciali soddisfacenti e da determinare, pertanto, la dipendenza economica dell’affiliato dall’affiliante.
Ad avviso dell’Autorità, infatti, tali clausole sarebbero funzionali a creare una struttura di vendita e commerciale disegnata sulle sole esigenze del franchisor, e a garantire a quest’ultimo la possibilità di stabilire unilateralmente regole e parametri organizzativi che irrigidivano la struttura aziendale dell’affiliato, fino a ostacolarne, se non impedirne, la sua eventuale riconversione. In particolare, il fulcro dell’attività commerciale dell’affiliato, consistente nella definizione degli ordini di acquisto, risulterebbe assoggettato alla volontà discrezionale del franchisor, non solo in termini di tempistica, ma anche di quantitativi e assortimenti, che risultavano sproporzionati rispetto alle normali esigenze dell’affiliato.
Quello in oggetto è il terzo procedimento in materia di abuso di dipendenza economica, nell’arco di pochi mesi, promosso dall’AGCM (i due precedenti sono stati avviati nei confronti di società operanti nel settore della distribuzione di quotidiani e dei servizi postali), a testimonianza del nuovo attivismo manifestato dall’Autorità nei confronti di un istituto finora quasi mai utilizzato.
L’abuso di dipendenza economica è descritto dall’art. 9 della L. n. 192/1998 come la situazione in cui un’impresa è in grado di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi nei rapporti commerciali con un’altra impresa, tenuto conto anche della reale possibilità per l’impresa che subisce l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Dunque, tale fattispecie si realizza quando ricorrono due presupposti:
- la possibilità di determinare nei rapporti commerciali con la controparte un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi, in virtù del potere di dominio che un’impresa è in grado di esercitare sull’altra in conseguenza dei rapporti commerciali in essere; e
- la reale possibilità, per l’impresa dipendente, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
In definitiva, la dipendenza economica costituisce la traduzione, in termini giuridici, di una situazione monopolistica, o quasi monopolistica, nella quale una impresa viene a trovarsi nei confronti di un’altra. Essa consiste in un deficit di potere contrattuale – cioè nella ridotta o annullata capacità di ottenere condizioni contrattuali favorevoli – determinato dalla difficoltà o impossibilità di reperire alternative sul mercato di riferimento, al quale corrisponde il potere dell’impresa contrattualmente forte, di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi tra le parti.
La norma in esame tipizza tre ipotesi che costituiscono le manifestazioni più rilevanti dell’abuso di dipendenza economica, ovvero:
- il rifiuto di vendere o di comprare;
- l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie;
- l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali.
Quando si verifica una situazione di abuso di dipendenza economica, si producono due tipi di conseguenze:
- sul piano civilistico, l’accordo con il quale si è realizzato l’abuso di dipendenza economica è nullo, con il conseguente diritto al risarcimento del danno in capo dell’impresa che ha subìto l’abuso;
- sul piano amministrativo, l’AGCM può, ai sensi della L. n. 287/1990, irrogare all’impresa che ha abusato della dipendenza economica di un’altra sanzioni pecuniarie fino al 10%del fatturato totale dell’impresa stessa, qualora non ottemperi al provvedimento di diffida emanato dalla medesima Autorità.
Sebbene la L. n. 192/1998 riguardi la subfornitura industriale, l’abuso di dipendenza economica è ormai considerata una figura applicabile, in via generale e trasversale, a qualsiasi rapporto contrattuale tra imprese sorretto da logiche di decentramento produttivo, nei quali si rinvenga una situazione di asimmetria negoziale (come è, tra l’altro, inequivocabilmente confermato dalla originaria collocazione della norma all’interno della legge antitrust). I contratti di franchising rientrano quindi pienamente nell’ambito applicativo della norma in esame.
In effetti, i contratti di franchising contengono molto spesso clausole notevolmente restrittive della concorrenza e dell’autonomia imprenditoriale del franchisee; la lista prima indicata, su cui si è concentrata l’attenzione dell’AGCM nel caso del contratto utilizzato da Benetton, è ben esemplificativa della situazione di evidente squilibrio contrattuale che caratterizza, in modo generale e strutturale, la gran parte dei modelli contrattuali di franchising utilizzati da tempo nella prassi (molto spesso di derivazione anglo-americana, in linea con l’ambito geografico in cui si è storicamente sviluppato l’istituto).
I contratti di franchising sono quindi fisiologicamente caratterizzati dalla dipendenza economica dei franchisee nei confronti del franchisor. Al franchisee è chiesto di adeguarsi al particolare sistema di produzione e distribuzione che caratterizza la rete in franchising, e dunque ad adeguarsi alle direttive del franchisor per ciò che attiene ai prodotti e servizi da acquistare, rivendere e fornire, l’allestimento dei locali, l’uso di software, la pubblicità, l’utilizzo del marchio, e così via.
Non a caso, uno dei tratti caratterizzanti del franchising è proprio la omogeneità della rete in franchising stessa; i franchisee sono strettamente connessi con il franchisor, e sono integrati verticalmente con quest’ultimo, tanto che agli occhi del pubblico l’affiliato appare come l’alter ego dell’affiliante.
La situazione di dipendenza economica dell’affiliato è poi accentuata dalla presenza (pressoché immancabile) all’interno dei contratti di franchising di una clausola di esclusiva a favore del franchisor, che impedisce all’affiliato di reperire sul mercato alternative al rapporto con la controparte, determinando o rafforzando la posizione di dominanza relativa del franchisor
Dunque, è possibile affermare che qualsiasi rapporto di franchising è intrinsecamente caratterizzato da una situazione di dipendenza economica degli affiliati nei confronti dell’affilianti. Ma ciò non significa, ovviamente, che tale situazione di dipendenza debba considerarsi illecita. Al contrario, essa deve presumersi assolutamente lecita; come è inequivocabilmente confermato non soltanto dalla tipizzazione dell’istituto operata dalla L. n. 129/2004, ma anche, e soprattutto, dalla patente di legittimità che il franchising ha sempre ricevuto dalle autorità comunitarie, in ambito antitrust.
Invero, a partire dalla sentenza Pronuptia del 1986, le (numerose) clausole restrittive della concorrenza contenute nella gran parte dei contratti di franchising – quali ad esempio gli obblighi imposti all’affiliato a tutela del marchio e della proprietà intellettuale dell’affiliante, l’imposizione di determinate modalità per l’attività di vendita, gli obblighi di esclusiva, etc. – sono sempre state ritenute conformi ai principi antitrust, ed anzi considerate con particolare favore in chiave di integrazione dei mercati nazionali, Ciò essenzialmente perché, all’esito di un bilanciamento, in base alla c.d. rule of reason, le restrizioni concorrenziali presenti nei contratti di franchising sono considerate nel loro complesso suscettibili di apportare benefici al mercato, essendo in tal modo consentito a imprenditori sprovvisti dell’esperienza necessaria di avvalersi di metodi che essi avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi della reputazione del segno distintivo del franchisor.
D’altra parte, non è senza significato il fatto che tali clausole non soltanto siano accettate liberamente dall’affiliato – il quale, è bene ricordarlo, riveste sempre la qualifica giuridica di imprenditore, e non di consumatore – nel momento in cui lo stesso sottoscrive (liberamente) un contratto di franchising, ma che siano state (rectius, dovrebbero essere) adeguatamente valutate e soppesate dall’aspirante affiliato prima della sottoscrizione del contratto, dato che la L. n. 129/2004 sull’affiliazione commerciale – con una norma che rappresenta un unicum nell’ambito dei contratti di impresa – impone al franchisor, come è noto, di fornire al futuro franchisee una serie di informazioni, oltre che una copia del contratto di franchising, almeno 30 gg. prima dell’effettiva sottoscrizione del contratto stesso.
Ma, tornando al tema della nostra analisi, il fatto che i contratti di franchising siano fisiologicamente caratterizzati dalla dipendenza economica del franchisee non significa che tale situazione possa essere sempre essere considerata lecita. L’art. 9 della L. n. 192/1998 vieta infatti (non già la dipendenza economica in quanto tale, bensì) l’abuso della dipendenza economica di un’impresa ai danni di un’altra. Occorre quindi analizzare quando tale abuso possa essere realizzato dal franchisor ai danni del franchisee, integrando così la fattispecie prevista dalla norma.
Nell’ambito del franchising, possono ricorrere tipicamente due delle fattispecie tipiche descritte dall’art. 9 L. n. 192/1998 nelle quali può realizzarsi l’abuso di dipendenza economica del franchisor ai danni del franchisee: l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali e l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose.
La prima fattispecie può realizzarsi allorché il franchisor receda ad nutum dal contratto (avvalendosi di una facoltà prevista nel contratto stesso), o si rifiuti di rinnovare la validità del contratto – una volta scaduto il primo periodo di validità dello stesso, o uno dei periodi successivi, ovvero subordini la rinnovazione del contratto ad una serie di condizioni penalizzanti per l’affiliato.
In tali casi, l’abuso di dipendenza economica si realizza non già nella fase genetica del contratto, ma in un momento successivo, cioè in quello dello scioglimento e della conseguente decisione circa il suo rinnovo; allorché il franchisor abusi della propria situazione di potere nei confronti dell’affiliato, la cui posizione è contrattualmente indebolita per effetto degli investimenti sostenuti inizialmente, o della difficoltà o impossibilità di continuare a svolgere l’attività che esercitava in qualità di affiliato, al di fuori della rete, anche in conseguenza di un patto di non concorrenza post-contrattuale.
Occorre tuttavia evidenziare che la norma di cui all’art. 3, comma 3, della L. n. 129/2004 sull’affiliazione commerciale, nell’intento di salvaguardare gli investimenti compiuti dall’affiliato e consentirne l’ammortamento, dispone che nei contratti di franchising l’affiliante deve comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. La norma, in tal modo, appronta già una efficace tutela in favore dell’affiliato, garantendo una durata minima del contratto idonea a consentire all’affiliato stesso l’ammortamento degli investimenti effettuati, e dunque riequilibrando, sotto questo profilo, i rapporti tra le parti.
Per effetto della tutela prevista in favore degli affiliati dalla L. n. 129/2004, dunque, il possibile ambito in cui può realizzarsi una situazione di abuso di dipendenza economica ai danni dell’affiliato, sotto il profilo della interruzione arbitraria delle relazioni commerciali risulta residuale; invero, esso può ricorrere soltanto qualora, pur essendo stato il contratto in vigore oltre la durata minima prevista per legge – sufficiente appunto a consentire all’affiliato l’ammortamento dell’investimento effettuato – lo scioglimento anticipato dello stesso ovvero il suo mancato rinnovo possa ritenersi – alla luce di una analisi da effettuarsi in concreto, caso per caso – comunque abusivo, e dunque illecito.
Tale situazione potrà concretamente realizzarsi solo laddove il franchisor decida di risolvere il contratto avvalendosi di una clausola risolutiva espressa per inadempimenti di scarsa importanza (al solo scopo di sciogliersi da un contratto divenuto non più conveniente); o quando receda ad nutum, pur decorso il termine di durata minima del contratto prevista per legge, senza congruo preavviso e in assenza di giusta causa; o ancora (e quest’ultima costituisce probabilmente l’ipotesi più ricorrente nella prassi) quando il franchisor si rifiuti di rinnovare il contratto, quando era insorto nel franchisee un legittimo affidamento circa il prolungamento del rapporto (vuoi per la regolarità e/o la pregressa lunga durata del rapporto, vuoi per la recente richiesta del franchisor di effettuare nuovi investimenti, vuoi per altre situazioni concrete).
La seconda fattispecie di abuso di dipendenza economica che può ricorrere nell’ambito dei contratti di franchising – che è appunto la fattispecie tenuta in considerazione dall’AGCM nel caso Benetton – è quella consistente nella l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose.
Il giudizio circa la ingiustificata gravosità delle condizioni contrattuali può essere effettuata, astrattamente, sia in termini giuridici che economici, alternativamente o cumulativamente fra loro. Tuttavia, mentre la valutazione sull’adeguatezza del corrispettivo sembra in concreto difficilmente proponibile – essendo improbabile che il giudice possa ingerirsi nella valutazioni circa le condizioni del mercato, i costi e i margini di guadagno, compiute dalle parti (entrambi imprenditori) al momento ella conclusione del contratto – appare maggiormente plausibile che il giudice possa valutare l’assetto giuridico del contratto di franchising.
Sotto questo profilo, dovrà essere oggetto di analisi non tanto – o comunque non soltanto – la gravosità delle condizioni contrattuali, ma anche (e soprattutto) la loro ingiustificabilità. A tale ultimo profilo, occorrerà sostanzialmente valutare se le restrizioni della libertà contrattuale imposte dall’affiliante all’affiliato siano giustificate dalle legittime esigenze del franchisor di assicurare la stabilità e l’uniformità della rete in franchising, e, in particolare, finalizzate a proteggere il know how trasmesso gli affiliati, la cui esistenza e validità costituisce l’architrave su cui si fonda la legittimità del franchising.
In altri termini, occorre valutare se tali clausole siano effettivamente funzionali al raggiungimento degli scopi insiti nel contratto di franchising – e quindi a tutelare l’uniformità e l’immagine della rete, oltre che il know-how sviluppato dal franchisor- o se invece siano finalizzate ad assicurare un ingiustificato arricchimento del franchisor ai danni dell’affiliato. In questo senso, ad esempio:
- il divieto al franchisee di svolgere un’attività concorrente , pur limitandone pesantemente la libertà imprenditoriale, non è ingiustificatamente gravoso se funzionale allo scopo di impedire la divulgazione del know-how della rete e proteggere il franchisor dal pericolo di uno sviamento della clientela a favore dei concorrenti;
- l’obbligo per l’affiliato di vendere esclusivamente prodotti forniti dal franchisor e il diritto di quest’ultimo di controllare l’assortimento di tipologie merceologiche offerte al franchisee, non è ingiustificato se necessario a garantire che il cliente possa trovare presso ogni negozio affiliato merce della stessa qualità, e quindi a tutelare la reputazione della rete;
- l’obbligo dell’affiliato di non cedere l’attività senza il consenso del franchisor non è eccessivamente gravoso se mira ad evitare che i concorrenti si giovino indirettamente del know how e dell’assistenza del franchisor, aprendo un punto vendita negli stessi locali in cui operava precedentemente l’affiliato;
- l’obbligo per l’affiliato di applicare esclusivamente i metodi commerciali elaborati dal franchisor è giustificato dall’esigenza di assicurare l’unitarietà della rete, e così via.
Finora la giurisprudenza, pur riconoscendo, nella sua parte maggioritaria, l’applicabilità dell’art. 9 L. n. 192/1998 anche ai contratti di franchising, ha sempre negato l’esistenza di una posizione di dipendenza economica dell’affiliato nei confronti dell’affiliante, non ravvisando gli estremi dell’abuso di dipendenza economica nei termini indicati nella norma e conseguentemente rigettando le relative domande proposte dai franchisees. In questo senso, di recente, si sono espressi: App. Roma, 1.3.2018; Trib. Monza, 4.7.2017; Trib. Torino, 9.5/2017; Trib. Roma, 1.4.2017; Trib. Bologna, 5.10.2016; App. Milano, 15.7.2015; Trib. Milano, 6.12.2017.
Il principale motivo per il quale le istanze di tutela degli affiliati sono state disattese dai giudici – al di là della scarsa dimestichezza (per non dire la diffidenza) e/o della non corretta o superficiale applicazione e interpretazione del norma sull’abuso del divieto di dipendenza economica – risiede nella negativa valutazione circa la possibilità, per l’affiliato, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. In altri termini, la giurisprudenza ha finora ritenuto – sia pure con motivazioni spesso assai stringate, superficiali ed approssimative – che l’affiliato, pur in presenza di una situazione di oggettivo eccessivo squilibrio contrattuale, avesse la possibilità di trovare alternative migliori o comunque valide sul mercato, rispetto a quelle rappresentate dal franchisor.
In realtà, l’analisi di molti contratti di franchising utilizzati nella prassi mostra come, in via generale, l’affiliato è spesso tenuto ad effettuare investimenti non facilmente reinvestibili o convertibili in un altro futuro ed eventuale rapporto. Ogni franchisor, infatti, adotta generalmente un sistema distributivo diverso rispetto a quello degli altri franchisors esistenti sul mercato, di talché il franchisee è costretto ad acquisire conoscenze ed a compiere investimenti che risulteranno utili soltanto nei rapporti con quel determinato franchisor, e difficilmente riutilizzabili nei confronti di altri imprenditori che si avvalgano di diversi sistemi.
In altri termini, l’affiliato viene – fisiologicamente – a trovarsi nella situazione di non poter profittare di soddisfacenti alternative sul mercato. Tali alternative, pur presenti in astratto, richiederebbero la perdita di quegli investimenti e di quelle conoscenze, e dunque divengono sostanzialmente non accessibili per l’affiliato.
Inoltre, l’affiliato è spesso un imprenditore non molto esperto o avveduto, se non un vero e proprio new-comer del mercato, e dunque non in grado di valutare l’effettiva presenza di altre offerte sul mercato. Tale valutazione richiede, invero, capacità e skills non sempre alla portata degli affiliati, o comunque la necessità di incaricare consulenti esterni, i cui costi spesso non sono abbordabili per gli affiliati.
Tuttavia, l’analisi circa la possibilità degli affiliati di reperire valide e soddisfacenti alternative sul mercato – ai fini dell’accertamento della condizione di dipendenza economica nei confronti del franchisor – deve essere condotta non via astratta bensì caso per caso, e in modo rigoroso, attraverso una valutazione oggettiva e soggettiva del mercato rilevante – sotto il duplice profilo del mercato merceologico e del mercato geografico – e la constatazione della presenza in esso di alternative – in termini di canali distributivi o di acquisto alternativi – con i criteri propri del diritto antitrust.
Sotto il profilo oggettivo, occorrerà in primo luogo individuare le caratteristiche economiche della singola rete in franchising e del mercato in cui essa si svolge; sotto il profilo soggettivo, invece, occorrerà valutare se l’affiliato possa considerare –sulla base di criteri economici e imprenditoriali – l’alternativa presente sul mercato rilevante ragionevole, alla luce dei costi eventualmente necessari per cambiare partner commerciale o distribuire il prodotto attraverso diversi canali. Fermo restando che, come evidente, più ampio sarà il mercato di riferimento maggiori saranno le possibilità che sullo stesso vi siano alternative.
In sostanza, la valutazione della situazione di dipendenza economica dell’affiliato presuppone, una volta individuata l’alternativa sul mercato, la determinazione del costo concorrenziale che lo stesso dovrebbe affrontare per utilizzare tale alternativa, ovvero la ricostruzione dei costi complessivi di commutazione (trasporto, perdita di clientela, riconversione dei macchinari, etc.), che il franchisee dovrebbe affrontare per affiliarsi ad un’altra rete in franchising. La dipendenza economica dell’affiliato sussisterà, dunque, non solo qualora i costi dell’alternativa rispetto al franchisor siano tali da mettere in gioco la sopravvivenza stessa della sua impresa, ma anche quando tali costi siano superiori a quelli ordinariamente sopportati dai concorrenti dell’affiliato, e, quindi, l’alternativa possa essere perseguita solo a condizione di accettare uno svantaggio concorrenziale.
Avv. Valerio Pandolfini
Avvocato Consulenza legale Franchisor
Abbiamo una vasta esperienza nella consulenza e assistenza legale nel franchising.
Abbiamo assistito numerose reti in franchising, nella predisposizione/revisione dei contratti di franchising.
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